Portogruaro, Agostinelli si racconta
Andrea Agostinelli. Occupazione: mister del PortogruaroSummaga. Non serve aggiungere molto altro, perché è un uomo che ha dichiaratamente deciso di vivere per il calcio. Dopo diciassette anni da centrocampista professionista, ha dismesso i pantaloncini e i parastinchi, per indossare abbigliamenti più consoni ad un allenatore e si è seduto, dal ’94, sulla sua prima panchina: quella degli Allievi della Lodigiani Calcio.
Perché passare dal vivo del gioco al bordo campo?
“Questione di pura passione. Fin da giovane prendevo nota degli allenamenti e delle preparazioni a cui mi sottoponevo.”
E perché proprio allenatore e non altro, sempre nel settore?
"La scelta era l’unica possibile perché per me voleva dire continuare a vivere in mezzo ad un prato verde.
Questa immagine ha contraddistinto il mio essere da sempre e poi portare avanti un gruppo, esserne il riferimento e la guida, è una grande gratificazione.”
Che diversità di sensazioni c’è tra Andrea giocatore e Andrea allenatore?
"Per un atleta non esiste partita, nemmeno la più importante della carriera, che possa dare la stessa tensione e pressione di chi lo stesso momento lo vive dalla panchina. Giocando ti scarichi, allenando subisci gli eventi e, anche se tenti di indirizzarli, non ne sei l’attore principale.”
Cosa cambia nel vedere la partita dal vivo e a mente lucida, in relax, da casa? “
"Che in gara non vedi sempre la realtà, mentre a mente fredda percepisci le cose per quello che sono. L’allenatore più bravo è quello che sbaglia di meno, proprio dal vivo.”
In panchina prende le decisioni da solo?
"Di solito mi piace assumermi le mie responsabilità. È anche vero che lo staff, soprattutto in certe occasioni, tipo su palle da fermo, mi da delle indicazioni indispensabili. Comunque, con l’esperienza, ti crei una specie di format mentale che ti consente di analizzare, le varie situazioni, in modo più sereno.”
E’ difficile dividere il lato umano da quello prettamente professionale? “
"Per chi, come me, proviene dal campo, il vantaggio è quello di conoscere l’odore dello spogliatoio, ma la reale difficoltà è quella di saper gestire le situazioni col giusto distacco. Sentirsi troppo “un giocatore” è deleterio e per me, all’inizio soprattutto, è stata la parte più difficile da perseguire nel mio percorso di crescita.”
Lei indossa sempre un cappellino...
"Si può considerare una specie di scaramanzia, se così si può definire. E’ una vecchia storia che risale a 12 anni fa, all’epoca vincemmo un campionato e da quel giorno non l’ho più abbandonato.”